Stimolare (e curare) il sistema nervoso con i sapori

Non solo per la cucina, le ricerche marketing e le analisi sensoriali.

È diventata una disciplina scientifica che sta aprendo la strada a vere proprie terapie. La Neurogastronomia, infatti, fino a oggi studiata in ambito culinario come veicolo per migliorare il gusto dei piatti e per “costruire” i sapori più accattivanti nei cibi della grande distribuzione, assume un altro ruolo: è uno strumento di prevenzione e cura delle fragilità neurologiche.
Il Consiglio nazionale delle ricerche di Palermo (Cnr-Irib) ha appena organizzato il primo workshop mirato alle conoscenze dei meccanismi con i quali il cervello umano percepisce e “interpreta” lo stimolo del cibo.
Conoscenze da utilizzare, accanto ai farmaci nell’ambito della medicina riabilitativa. Impiegando, proprio il cibo, come neurostimolatore in grado di attivare specifiche aree cerebrali e sostenere il recupero funzionale in pazienti con disturbi neurologici, psichiatrici o neurodegenerativi. Come Alzheimer, Parkinson o patologie legate all’invecchiamento mentale.

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«Abbiamo riunito – spiega Domenico Nuzzo, ricercatore del Cnr-Irib e coordinatore dell’iniziativa – studiosi di diverse estrazioni: neuroscienziati, esperti di analisi sensoriale, tecnologi alimentari, studiosi del comportamento, eccetera. Gli interessati, cioè, a costituire il primo nucleo di una rete scientifica interdisciplinare che renda questa disciplina emergente un nuovo punto di riferimento per prevenire e curare queste patologie. La neurogastronomia è lo studio della percezione del sapore e dei modi in cui influenza la cognizione e la memoria. Per questo può essere adottata per scopi terapeutici».
È merito di Gordon Shepard, neuroscienziato dell’Università di Yale scomparso tre anni fa, se oggi sentiamo parlare di questa scienza che studia come il nostro cervello dà vita ai sapori. Utilizzando il sistema olfattivo come modello che abbraccia più livelli di spazio, tempo e discipline, i suoi studi spaziavano dal molecolare al comportamentale. «I sapori – diceva il professore – non sono nel cibo ma vengono creati dal nostro cervello e la percezione del gusto è un processo complicato che coinvolge non solo i cinque sensi ma anche memoria, emozioni, ricordi».

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L’APPROCCIO
Da qui, l’intuizione di avviare le ricerche perché la Neurogastronomia diventi una vera terapia utilizzata proprio per risvegliare, come diceva Shepard, “memoria, emozioni, ricordi”. «Stiamo lavorando sulle diverse vie da percorrere – aggiunge Domenico Nuzzo – Pensiamo alla ripetizione per diversi giorni consecutivi di una ricetta che riesce, seppur impercettibilmente, a suscitare una reazione ma anche alla stimolazione sensoriale non solo gustativa ma anche visiva. Vorremmo riuscire, così, ad arrivare e in qualche modo a riattivare alcune aree del cervello sostenendo il recupero funzionale. Abbiamo verificato, per esempio, che la sola visione del gelato permette di creare degli stimoli benefici. Dei ricordi. Da non sottovalutare, poi, il mix che si può creare tra convivialità, luce, profumi, disposizione dei cibi nel piatto».

Che la Neurogastronomia sta prendendo connotati non solo culinari ma anche medici lo dimostra la lectio magistralis che nei giorni scorsi ha tenuto all’Ateneo di Foggia Charles Spence, psicologo sperimentale dell’Università di Oxford. Tra i massimi esperti nella percezione sensoriale e nella cosiddetta “progettazione delle esperienze”. Attraverso i suoi studi ha dimostrato come il piacere che proviamo nel gustare un determinato cibo sia frutto proprio dell’esperienza attraverso i cinque sensi.

Questi, dunque, stimolati secondo percorsi scientifici possono diventare terapia per chi ha problemi neurodegenerativi con una sensoriali quasi sopita. «I piaceri della tavola risiedono in realtà nella testa delle persone non nelle nostre bocche – sono le parole di Spence – Tutti crediamo di sentire i gusti nella nostra bocca, ma in realtà è nella nostra testa che l’apparenza del cibo, il suo odore, il sapore, la consistenza si combinano con l’esperienza della temperatura del luogo dove siamo, con il nostro stato d’animo, con le emozioni, con per determinare cosa pensiamo di stare gustando. E il nostro cervello proietta poi questo pensiero combinato nella nostra bocca».

LA REVISIONE
Appare chiaro che il cibo può essere utilizzato come strumento per riattivare la memoria e la cognizione, associando le esperienze culinarie a ricordi positivi. Come Marcel Proust nella sua Ricerca del tempo perduto ci ha raccontato l’effetto della madeleine inzuppata nel tè sul suo cervello: “Ma nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me…”. Ora è la scienza a studiare quella sensazione.

«Stiamo ancora lavorando sulle basi di questi nuova disciplina scientifica applicata alla riabilitazione – spiega ancora Nuzzo – ma la revisione che abbiamo fatto delle ricerche ci permette di avere buone speranze. Le sperimentazioni sicuramente confortano. Sappiamo che il metodo può funzionare ma sappiamo anche che le stimolazioni dovranno essere disegnate su misura del paziente. La Neurogastronomia non rimarrà una curiosità accademica ma sarà una vera e propria frontiera della medicina riabilitativa capace di coniugare cibo, stimolazione sensoriale e cervello. Si tratta di un approccio che, partendo dal gusto, arriva a toccare le parti più profonde della mente umana. Speriamo che un giorno sarà proprio un sapore a restituirci un ricordo perduto».

Una melodia giusta può alterare la percezione

Il piacere del buon cibo può essere influenzato dalla musica che ascoltiamo, modificando la percezione del pasto. Secondo Charles Spence, docente di Psicologia sperimentale all’Università di Oxford, il piacere di mangiare può essere migliorato dall’ascolto della melodia giusta. La musica può “ingannare” il cervello facendogli percepire un sapore più dolce, più salato o più amaro di quello reale. Il suono giusto può aumentare il gusto di quello che si mangia e di quello che si beve fino al 15%. L’orecchio può “informare” le papille gustative rispetto a ciò che sta ascoltando e influenzarne la percezione.

Caffè: una tazzina bianca lo fa sentire più amaro

La tazzina giusta per il caffè. La stessa miscela, spiegano i ricercatori dell’Università di Oxford, bevuta in tazzine di colori diversi, risulta più o meno dolce. La tazzina bianca viene associata al gusto amaro, quella rosa al dolce. È stato, così, dimostrato che il colore della tazzina è riuscita a far aumentare o diminuire il consumo di zucchero indipendentemente dal quotidiano gusto personale. La percezione del sapore del caffè, dunque, non è solo determinata dal sapore in sé, ma anche da fattori esterni come la vista, l’udito e l’ambiente circostante. Una combinazione di fattori sensoriali, e non solo della lingua.

Trento “Food sound” mette insieme cibo e suono

“Food sound, il suono nascosto del cibo” fino all’11 gennaio 2026 al Muse, il museo delle scienze progettato da Renzo Piano a Trento. “Indossa le cuffie e tuffati in un percorso di visita interattivo e coinvolgente – è l’invito – Rifletti sul legame tra suono, scelte alimentari e neuroscienze e scopri cosa ha portato scienziate e scienziati a dimostrare che mangiamo anche con le orecchie”. Un percorso tra ambienti ricostruiti, tridimensionali, in cui si ascoltano suoni fisici e reali, ma anche sussurrati, immaginati, percepiti. Oltre alla mostra sono organizzati laboratori sensoriali, performance tra gusto e ritmo.
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